domenica 10 agosto 2008

La società degli eterofobi: 'paure-scandalo' e paure 'normali'

Trovo su repubblica.it di oggi questo articolo di Ilvo Diamanti, che merita di essere letto e meditato. A voi. E buona domenica.

Siamo una società insicura, tanto abituata a sentirsi tale da non farci neppure caso. Insicura per default. Abbiamo molte paure che tracimano in un unico bacino, nel quale si deposita un sentimento inquieto. Una paura di fondo. Che ci accompagna dovunque. Non ci lascia mai soli. Anche se non ne siamo consapevoli. Eppure non tutte le paure sono uguali, hanno la stessa dignità, la stessa audience e la stessa evidenza mediatica. Il medesimo impatto politico. Quando si parla di "paura", per esempio, oggi pensiamo immediatamente all'incolumità personale. E quando pensiamo alla incolumità personale pensiamo immediatamente alla criminalità, comune ed eccezionale, che ci minaccia dovunque. Da vicino. Noi, i nostri cari, le nostre abitazioni. Ladri, aggressori, violentatori, rapinatori, pedofili. Perlopiù, stranieri, immigrati e zingari. Gli "altri" per definizione. Siamo eterofobi. Temiamo di essere insidiati, che i nostri figli e i nostri familiari vengano aggrediti. Dagli altri. Per questo gran parte degli italiani guarda con favore all'impiego sul territorio di esercito, polizia, ronde padane e democratiche. Tutto quanto renda "visibile" la sorveglianza sulla nostra incolumità. Sulla nostra sicurezza. A prescindere dall'efficacia che realmente sono in grado di garantire. Preoccupano di meno, invece, altri rischi che incombono sulla nostra vita. E sulla nostra morte. Gli infortuni sul lavoro. Gli incidenti che avvengono sulla strada. Per non parlare di quelli domestici. I quali avvengono, cioè, tra le mura delle nostre abitazioni. Eventi tragici che ricevono, perlopiù, evidenza minore sui media. Salvo che in situazioni molto particolari. L'esplosione alla ThyssenKrupp, che ha provocato la morte di 7 operai. Oppure l'incidente (auto) stradale in cui, qualche giorno fa, sono decedute 7 persone presso Treviso. O, ancora, quello di cui è stato vittima Andrea Pininfarina. Imprenditore di grande qualità manageriale (e, ancor prima, umana), alla guida di una grande azienda legata all'industria dell'auto.
Casi eccezionali, per le proporzioni dell'evento o per la specifica identità della vittima. Mentre, in generale, all'emozione del momento subentra, rapida, la rimozione. Un sentimento di sottile fastidio, non dichiarato e neppure ammesso. Quasi che quegli avvenimenti non ci coinvolgessero in modo diretto. Eppure, ogni giorno in Italia (dati Istat per ACI) si verificano oltre 600 incidenti che causano la morte di circa 15 persone e il ferimento di 800. Nel complesso, in media, ogni anno, sulle strade, decedono circa 5mila persone, mentre 300mila subiscono traumi e lesioni di diversa gravità. Quanto agli incidenti sul lavoro (fonte INAIL), provocano circa 1000 morti ogni anno. Nel 2008, fino ad oggi, oltre 400 persone sono morte di lavoro, mentre 11mila sono rimaste ferite o invalide. Come ha rammentato di recente il Censis, rispetto agli omicidi, i morti sul lavoro sono quasi il doppio e i decessi sulle strade otto volte di più. Tuttavia, il grado di visibilità offerto dai media è inverso rispetto alla misura di questi tipi di episodi. Non c'è paragone. Vuoi mettere i delitti di Cogne e Perugia? La tragica aggressione avvenuta nel quartiere romano della Storta? Fa eccezione la saga delle "morti del sabato sera". Un serial che si ripete, perché evoca altri scenari, più attraenti. La gioventù bruciata dai rave tossici consumati nelle discoteche o in altri luoghi di perdizione. Ma, per il resto, è un basso continuo. Da cui si stacca qualche onda episodica, destinata a venire riassorbita da un solido senso di abitudine. Il fatto è che le morti sul lavoro e, ancor più, sulle strade incombono su di noi. Sui nostri familiari. Perché i luoghi di lavoro ma, soprattutto, le strade, in Italia, sono fra gli ambienti più insicuri d'Europa. Lavorare è pericoloso. Da noi più che altrove. Per diverse ragioni, per diverse cause. Per colpa dei contesti. Le aziende, i luoghi di lavoro, dove il rispetto delle regole e delle condizioni di sicurezza è spesso disatteso. E gli stessi lavoratori, talora, le disattendono. Perché costretti. Ma anche per abitudine e imprudenza routinaria. (Molte vittime, peraltro, sono lavoratori autonomi). Circolare è altrettanto - forse più - pericoloso. Di nuovo: per lo stato della nostra rete viaria. E per la generale e generalizzata tendenza a bypassare le regole. D'altronde, chi si sentirebbe "colpevole", peggio, un criminale per aver parcheggiato in doppia fila o per aver attraversato col rosso? Colpa dello Stato. Lo stesso che ci costringe a "evadere" le tasse. Per legittima difesa. Non fanno paura, i luoghi di lavoro, agli italiani, quanto le proprie case. Dove temono di venire aggrediti e derubati dagli "altri". (Ma la maggior parte delle aggressioni e delle violenze avvengono per mano di familiari e vicini di casa). Egualmente per quel che riguarda le strade: sono più preoccupati quando le attraversano da soli, a piedi, magari a tarda ora, piuttosto che in auto o in moto. A grande velocità. E' probabile che questo orientamento rifletta una consolidata definizione dei fattori di rischio. Morire per il lavoro lascia, ogni volta, un vuoto incolmabile. Però, in fondo, è "socialmente" sopportato. Nonostante la reazione costante di molte autorevoli voci (per prima quella del Presidente della Repubblica). Perché il lavoro è necessità, ma anche virtù e valore. Mezzo per vivere e ragione di vita. Per questo, morire sul lavoro, è doloroso. Un abisso. Ma ha "senso". Come un male incurabile. Morire o ammazzare altre persone sulle strade. Ha meno "senso". Però è accettato. Non quando ci tocca di persona, ovviamente. Ma quando ne sentiamo gli echi sui media. Ce ne facciamo una ragione. Perché viaggiare in auto o in moto comporta rischi calcolati. Accentuati dalla diffusa e regolare "irregolarità". Quelli che viaggiano senza cinture, quelli che telefonano alla guida, quelli che se ne sbattono dei limiti di velocità, quelli che fanno zig-zag su strade e autostrade, per superare chi sta di fronte. Non sono considerati "criminali". Ciò che fanno non è ritenuto un atto "criminoso". Nessuno, di conseguenza, invoca le camicie verdi a presidiare i luoghi di lavoro, per assicurare il rispetto delle norme di sicurezza. Per controllare e denunciare imprenditori o lavoratori "non in regola". E nessuno invoca l'intervento dell'esercito sulle strade a scoraggiare comportamenti criminosi (che, d'altronde, non sono considerati tali). Morire sul lavoro o sulle strade non fa spettacolo e non sposta voti. Non favorisce il governo né l'opposizione. Né la destra né la sinistra. Perché al centro di questi reati, di queste trasgressioni non sono gli altri. Siamo noi, i nostri valori, le nostre abitudini, i nostri stili di vita. Per cui, facciamoci coraggio: nei cantieri e sulle strade vi saranno ancora vittime. Troppe. Accompagnate da molto dolore, un po' di rabbia e tanta rassegnazione.

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